La pet therapy è una co-terapia relazionale che nasce dalla necessità di riconoscimento delle componenti psicologiche, sociali, antropologiche della malattia, spesso sottovalutate se non ignorate dalla medicina moderna, estremamente tecnologia, strumentale, specializzata e settoriale.
Il valore della relazione uomo animale in ambito assistenziale e co-terapeutico (pet therapy), benchè noto e universalmente riconosciuto, viene spesso mal interpretato, mescolato e confuso con il concetto di pet ownership, il malinteso secondo cui il semplice possesso di un animale possa di per sé apportare beneficio alla salute.
Molto spesso infatti viene suggerito, anche in ambito medico, di adottare un pet per dare sollievo a certe patologie. Si mettono in moto allora una serie di azioni approssimative e demagogiche che, seppur facendo leva su buoni sentimenti, non contribuiscono alla chiarezza né all’identificazione dei bisogni dei soggetti coinvolti.
Queste situazioni mancano completamente di progettualità: non vengono identificate necessità specifiche del soggetto, non identificati gli obiettivi che si intendono raggiungere, né attraverso quali prassi. Non si prendono in considerazione le conseguenze che tali azioni possono avere sull’animale coinvolto, che non necessariamente trarrà beneficio dall’essere inserito in una situazione già di per sé critica, né le possibili controindicazioni per l’umano o il suo gruppo familiare e sociale.
Altre volte si impiega l’animale come mezzo, dove l’obiettivo viene individuato in un puro miglioramento dei parametri medici, un semplice effetto sanitario, non riconoscendo l’obiettivo principale della co-terapia: la relazione di cui il beneficio sanitario è effetto.
E’ evidente la necessità di conoscenza, preparazione al fine di individuare quale la dimensione di relazione vada aperta, e quale proscritta, quali i modelli operativi, quale forma di progettualità e monitoraggio debbano essere messi in atto per ottenere la beneficialità del rapporto.
Quindi è più corretto parlare di attività che utilizzano la relazione con l’animale quale portatore di diversità fondamentale ed insostituibile, di reciprocità, quale interfaccia di scambio emozionale, percettivo, cognitivo e con valenze formative e co-terapeutiche.
Appare chiaro come la pet therapy così intesa, possa realizzarsi solo a seguito di lavoro di equipe di professionisti (medici, psicologi, educatori, operatori, veterinari) specificamente preparati, evitando il rischio di un rapporto non rispettoso della diversità, fondato sulla semplice soddisfazione dei bisogni umani (animale oggetto, farmaco, privo di soggettività e capacità di dialogo), o sull’antropomorfismo (animale non libero di manifestare la propria diversità).
L’innata pulsione umana verso l’animale è in grado di spiegare la beneficialità di queste attività e co-terapie che si attuano attraverso modalità ludiche, interattive, di cura, performative e così via, secondo quanto definito nei programmi di intervento, formulati dall’equipe in considerazione dei bisogni del fruitore, degli obiettivi da raggiungere, senza tralasciare le caratteristiche del pet coinvolto e l’espressione delle sue preferenze, con riguardo all’adeguatezza delle peculiarità soggettive e di specie.
Emerge perciò l’importanza della figura del medico veterinario coinvolto, che deve avere conoscenze di scienze comportamentali applicate e porsi quale garante del rispetto del pet nella sua integrità psicofisica e assicurare adeguati periodi di riposo affinchè anche anche l’animale possa trarre benefici dal lavoro svolto.
Le valenze di queste attività sono fuori discussione, il rischio di banalizzazione, se non di sfruttamento e quindi non solo di fallimento, ma anche di danno al fruitore e all’animale coinvolto, assai elevate.
Di qui la necessità di definire e seguire linee guida circa le buone pratiche sia tecnico-scinetifiche, che bioetiche, che di ordine formativo per i professionisti e di training per l’animale, nell’intento di tutelare interessi e diritti di tutti i soggetti interessati.