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Lentezza dei movimenti, rigidità, tremore. Tanto basta dire perché si affacci nella mente l’ombra pesante del Parkinson, la malattia neurodegenerativa considerata tra le più impattanti sulla qualità della vita delle persone colpite e di chi le assiste.
Secondo i dati più recenti ne sono colpiti circa 8 milioni di persone nel mondo (in Italia oltre 250 mila), il 2% della popolazione con più di 65 anni e fino al 5% degli over 80, e secondo le previsioni il numero è destinato ad aumentare fino al doppio per via dell’invecchiamento della popolazione. Si parla, infatti, di 15 milioni di persone colpite entro il 2050.
Ha un’evoluzione lenta ma progressiva che trasforma le persone, giorno dopo giorno, stravolgendo equilibri e abitudini di intere famiglie.
A partire dalla degenerazione delle cellule nervose, può coinvolgere diversi aspetti della funzionalità: cognitiva e motoria innanzitutto, ma anche di altro tipo, come disturbi intestinali, urinari, del sonno, dell’umore, la lista è lunga.
Si manifesta quando la produzione di dopamina nel cervello cala consistentemente. La dopamina è il neurotrasmettitore che controlla il movimento, per cui una minor produzione di questa sostanza causa una riduzione complessiva dell’uscita dei segnali motori.
Dal midollo al cervello cominciano a comparire accumuli di una proteina chiamata alfa-sinucleina e il risultato, alla lunga, è quel camminare lento, rigido e tremolante che tanti associano alla malattia.
La terapia farmacologica dopo un numero variabile non è sempre in grado di fornire un controllo motorio stabile e via via i pazienti iniziano ad avvertire la fine dell’effetto della singola somministrazione, un fenomeno chiamato “deterioramento da fine dose o wearing off”.
La ricerca neuroscientifica però oggi affina le armi contro questa malattia: uno studio tutto italiano condotto dall’lstituto San Celestino, in collaborazione con Cerebro e presentato al 48° Congresso Nazionale SIMFER (Società Italiana di Medicina Fisica e Riabilitativa) ha infatti dimostrato che la riabilitazione fisioterapica combinata con il trattamento di fotobiomodulazione permette un miglioramento di tutti i sintomi, maggiore rispetto a quello ottenuto con la sola fisioterapia.
Ovvero: notevole riduzione dei tremori, postura sensibilmente più eretta, camminata più sicura, un migliore orientamento e minore sensazione di affaticamento. In breve, un miglioramento globale della qualità della vita.
Come spiegano gli autori della ricerca, il dottor Samorindo Peci, la dottoressa Federica Peci e la biologa Rosjana Pica, la fotobiomodulazione è una tecnica di stimolazione cerebrale, non invasiva e indolore che, attraverso vari processi biochimici, agisce generando la modulazione dei processi neuroinfiammatori e agendo sulla sintomatologia che questi causano.
«È una tecnica che prevede l’esposizione dei tessuti neurali a una luce rossa o nel vicino infrarosso, a basso flusso. Questa luce attraversa una serie di strati, lo scalpo, il periostio, le ossa del cranio, le meningi e la dura madre, fino a raggiungere la superficie corticale cerebrale, e in questo modo, a determinati parametri (lunghezza d’onda, irradiazione, tempo di esposizione, etc..) modula il metabolismo delle cellule, allevia l’infiammazione, aiuta a prevenire la morte tissutale e dunque migliora le funzioni cerebrali.
Tra gli effetti documentati della fotobiomodulazione- affermano gli autori della ricerca- vi sono benefici sulla circolazione sanguigna a livello cerebrale, sul metabolismo dei neuroni, lo stress ossidativo e la formazione di nuovi neuroni.
Supportati dai risultati ottenuti da questa tecnica innovativa nei processi che hanno alla base l’infiammazione neuronale, abbiamo spinto la nostra ricerca: per un periodo di 4 settimane abbiamo sottoposto un gruppo sperimentale di pazienti con Parkinson a terapia fisioterapica, unita a un trattamento di fotobiomodulazione. Ebbene, anche in questo caso il passaggio di luce sull’intera area cerebrale-corticale ha confermato l’importante apporto in termini terapeutici: dai risultati è emerso un miglioramento dell’equilibrio e dell’andatura dei pazienti, una riduzione del tremore, che è stata oltretutto parzialmente mantenuta fino a dopo un mese, minor sonnolenza, minor affaticamento e una ridotta sensazione del mancamento tipico dei pazienti nell’assumere la posizione eretta.
È un risultato importante che ci impone di continuare a fare ricerca su questa strada, per dimostrare ancora quanto sia prezioso il ruolo dei dispositivi biotecnologici sul trattamento terapeutico di tante patologie tra cui il Parkinson e Parkinsonismi».