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Non tutte le mascherine contro il rischio Covid sono di qualità: nel mirino sono i criteri e i materiali di fabbricazione, ma anche chi certifica e dà i codici, come quelli che si leggono sulle Ffp2. Alcuni enti che certificano secondo regole europee sono situati fuori dell’Unione europea, e accusati di avallare capacità di filtrazione dichiarata superiore a quella reale. Il “tarocco” può trovarsi in entrambi i tipi di mascherine, ma soprattutto nelle Ffp2. In ogni caso, si parla delle due tipologie classiche: le mascherine chirurgiche, dispositivi medici preposti a non far passare all’esterno i batteri di chi le indossa, che devono rispettare la norma UNI EN 14683/2019 e per qualità si dividono in livelli I, II e II R quest’ultimo impermeabile; e le mascherine professionali, dispositivi di protezione individuale nati per polveri ed inquinanti ma utili contro patogeni esterni, aderenti alla norma UNI EN 149:2009 e classificati in FFfp1, Ffp2, Ffp3 in base al livello di protezione: le prime, si legge sul sito dell’Istituto Mario Negri, filtrano in media l’80% dei patogeni, le Ffp2 il 94%, le Ffp3 il 99%. Sia mascherine chirurgiche sia filtranti facciali, a valle dell’organo internazionale di notifica, sono valutate da Istituto superiore di sanità ed Inail. Sono poi in commercio mascherine “civili” per gli usi quotidiani, di materiali disparati, che non necessitano di valutazioni istituzionali.
Pandemia e crollo della qualità -Nella prima ondata, di fronte alla grave emergenza, il decreto 14 del 9 marzo 2020 ha aperto all’uso nei reparti ospedalieri di mascherine prive di marchio CE purché avessero l’ok dell’Istituto superiore di sanità. Portavoce di un gruppo in via di formazione di medici – microbiologi, virologi, infettivologi – e ingegneri, con l’obiettivo di spingere verso una maggiore diffusione ed un più facile accesso a mascherine di qualità, il professor Antonio Vittorino Gaddi, che è anche presidente della Società Italiana di Telemedicina, teme che quella misura possa non aver aiutato a combattere la diffusione della malattia. «Invece di agevolare la produzione di dispositivi idonei da parte di eccellenze che pure in Italia abbiamo, si è dato il via a produzioni di tutti i tipi. Si sono viste mascherine -italianissime, purtroppo- fatte di tessuto ripiegato o con gommapiuma in mezzo, vendute a caro prezzo; ed altre ancora spacciate per impermeabili perché avevano all’esterno uno strato di plastica: per consentire a chi le indossava di respirare il produttore aveva praticato dei buchi e alla fine filtravano meno di buone sciarpe di lana. Ma non è tutto: la sovraproduzione si è riversata sugli organismi di notifica e di fronte al lavoro crescente alcuni, oberati, hanno esternalizzato le certificazioni …e il mondo è grande».
Protezione carente – Sul fronte qualità nel complesso il panorama «non è desolante ma nemmeno rassicurante. Una pubblicazione di ingegneri italiani su “Environmental Research and Public Health” a prima firma di Francesco Tessarolo analizza oltre 100 mascherine chirurgiche e Ffp2 in commercio in relazione ai tipi di tessuto che le compongono, in genere polipropilene, spunbond termosaldato o meno, o termotessuti da fibre caotiche (queste ultime non hanno trama)», dice Gaddi. «L’articolo mostra che solo un 40% rispetta i parametri di filtrazione, un 20% è sulla linea della sufficienza, un altro 40% non li rispetta. Purtroppo, aggiungo io, il test avviene sulla capacità di filtrare i batteri: come diametro i virus come il Covid-19 sono 20-30 volte più piccoli».
Normativa internazionale inadeguata – E veniamo al punto centrale. «Che l’organismo di notifica sia italiano o asiatico, fidato o sconosciuto, le regole per misurare sono vecchie», continua Gaddi. «Malgrado il Covid-19 abbia un diametro tra 0,08 e 0,12 micron le mascherine per contrastarlo sono testate con il bacterial filtration index, tarato su batteri come lo stafilococco aureo che ha un diametro di 3 micron. Per filtrare un virus così piccolo ci vorrebbero mascherine con maglie molto fitte e molto piccole o dotate di altre particolari proprietà filtranti. Le mascherine Ffp3 migliori hanno spesso fibre molto sottili (1-2 micron), mentre alcune Ffp2 in spunbond termosaldato hanno fibre grossolane con fori da 15 micron. Di fatto, per fermare il virus si conta sulla sovrapposizione degli strati di materiale oltre che sulla qualità, nonché su altre variabili, spesso non considerate adeguatamente, come l’aerazione dei locali. Ma purtroppo sia il mondo delle autorità regolatorie sia quello della ricerca non hanno spinto per rivedere una normativa vecchia di 20 anni e nata o per le sale chirurgiche o per le industrie, come ad esempio la siderurgica, dove gli operai sono esposti anche a polveri ultrafini, grandi come il virus. Insomma: le mascherine nelle fabbriche in giro per il mondo tendono a proteggere in teoria dai virus ben più di quanto non risultino protettive quelle usate in alcuni dei nostri ospedali».
I limiti dei test – C’è un’ulteriore variabile. «Anche buoni laboratori possono rilasciare, in buona fede, certificazioni positive per mascherine inidonee contro i virus, in quanto la qualità della filtrazione si misura quantificando le particelle in uscita dal tessuto in percentuale su quelle sparate in entrata, ma tra quelle particelle ce ne sono di tutti i diametri, sia PM2,5, sia PM0,3 (la “taglia” del virus, appunto). E i detector sono sensibili al totale delle particelle che passano, non alla misura della particella in uscita, salvo ad utilizzare apparecchi complessi e costosi».
Le mascherine più “taroccate” – «Imbattersi in prodotti inadeguati è più probabile quando ci si rifornisce di mascherine Ffp2-Ffp3», continua Gaddi. «Il costo del tessuto filtrante e di produzione della mascherina chirurgica è inferiore rispetto a quello delle Ffp2 con i vari strati. Però è fondamentale non solo avere buone mascherine ma anche saperle indossare e qui un “mea culpa” dovrebbero farlo anche le autorità sanitarie! Inizialmente girava dai documenti la voce che il virus si trasmettesse per contatto (prima e unica regola: lavatevi le mani); poi qualcuno ha scritto che solo “droplet” da 5 micron in su trasmettessero i patogeni. Queste ed altre corbellerie hanno ritardato la giusta e comprensibile corsa verso le mascherine. Che sono indispensabili in un setting medico, perché un virus può “galleggiare” nell’aria a lungo e ricade molto più lentamente di quanto non facciano particelle grossolane, batteri, funghi ed altri patogeni. Basta un soffio o una mossa della mano a farlo risalire in aria. Motivo per cui, ad esempio, la mascherina è bene non toglierla mai quando si resta in studio dopo aver visitato o tamponato un paziente».
( Fonte Doctor 33)