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Donarsi all’altro è un bisogno sociale, un dare e avere infinito, l’essenza della nostra vita. Il lavoro di cura nella coppia inizia nel momento in cui avviene il primo incontro. Curarsi dell’altro, condividere gioie e dolori, sostenersi nelle decisioni difficili, non prevaricare, ascoltare e rispettarsi. Se poi uno dei due ha bisogno di assistenza, l’altro inizia un gravoso lavoro di cura nella cura. Quando il familiare apprende la diagnosi di malattia irreversibile vive una tempesta psicologica, perde i punti di riferimento e deve riorganizzare tutta la sua vita. Nulla sarà come prima! Un coacervo di emozioni forti ed altalenanti cominciano a farsi spazio nel caregiver: Paura, disorientamento, negazione, rabbia, disperazione, senso di impotenza. Riconoscere l’emozione del momento aiuta certamente a gestire la quotidianità. Il primo sentimento che si prova è la negazione: all’inizio si rifiuta di credere a ciò che sta accadendo e non si accetta la diagnosi dei medici. Si cercano altri specialisti e altri centri per sperare che ciò che è stato descritto nella prima diagnosi non sia vero. Solo dopo lunghi pellegrinaggi ci si rassegna alla triste verità. A questo punto, quando si acquista consapevolezza di ciò che sta succedendo, si cerca di reagire mettendo in atto nuovi comportamenti.
Prendere coscienza e cercare aiuto
Ad un certo punto, si prende quindi coscienza della malattia (razionalizzazione) e ci si sente immediatamente investiti di una grossa responsabilità, perché solitamente spetta a chi sta più vicino al malato prendersene cura e, a questo punto, il familiare diventa iperprotettivo, cercando di sostituirsi anche in alcune attività che la persona potrebbe ancora svolgere in autonomia. Spesso non ci si rende conto che agendo in questo modo si peggiora la situazione e si crea una dipendenza totale. La collera e la frustrazione investono chi cura; si ha la percezione che, nonostante tutti gli sforzi fatti, il malato peggiori e ciò porta ad irritarsi. Si vivono momenti di forte nervosismo anche con il malato stesso.
Il duro lavoro che portano avanti i Caregiver non è paragonabile a nessun tipo di lavoro. Sono persone impegnate notte e giorno ad assistere i loro cari, senza tregua. Non esistono spazi per sé, orari definiti o riconoscimenti da parte delle istituzioni. Gli anziani fragili sono coloro che a un certo punto della loro vita hanno bisogno di sostegno fisico e psichico. Non riescono, infatti, a compiere le attività di base della vita quotidiana, come lavarsi, vestirsi, fare la spesa e cucinare.
Il Caregiver informale cioè il familiare (da non confondere con il caregiver formale, retribuito), svolge un ruolo fondamentale per il benessere del malato, ma per ottenere un’assistenza adeguata e dare benessere bisogna stare bene. E’ fondamentale farsi aiutare, condividere il problema attivando i servizi del territorio o attraverso l’aiuto di personale privato (laddove è possibile) che sarà presente alcune ore al giorno e permetterà al caregiver di riposarsi e di “ricaricarsi”. Per non cadere in depressione il caregiver deve dedicare del tempo a sè stesso e lasciare il proprio caro in mani esperte, pena: il Burden del Caregiver.
Il Burden del Caregiver è essenzialmente una forma di stress, che tende a cronicizzarsi quanto più si prolunga la situazione di accudimento, e si manifesta tipicamente in forme soggettive. Spesso il caregiver va incontro ad una trasformazione quasi totale del proprio stile di vita e questo può comportare difficoltà nell’ambiente di lavoro, con gli altri membri della famiglia, con la propria rete di amicizie. Non meno importante è la sensazione di non riuscire a fare fronte alle esigenze di cura, che spesso caratterizza la condizione di Burden. In letteratura sono state individuate almeno cinque modalità con le quali la sindrome di Burden condiziona la vita del Caregiver:
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carico oggettivo: riguarda il numero di ore dedicate alla cura continua del proprio familiare;
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carico evolutivo: comporta la sensazione di non poter condurre il tipo di vita dei propri amici, parenti associata alla percezione di “uscire” fuori dalla propria rete parentale ed amicale;
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carico sociale: si riferisce a tutte le difficoltà che conseguono dal tentativo di conciliare la vita sociale con l’impegno assistenziale;
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carico fisico: riguarda il dispendio di energie impiegate nell’attività di assistenza;
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carico emotivo: è relativo ai comportamenti che caratterizzano il declino fisico e cognitivo dell’assistito.
A queste critiche modalità comportamentali bisogna poi aggiungere i principali sintomi sperimentati dal Caregiver quando questa condizione di stress persiste per molto tempo e cioè:
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problemi del sonno
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problemi nell’appetito
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disturbi dell’umore
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difficoltà di attenzione e concentrazione
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difficoltà mnesiche
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irritabilità, ansia
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preoccupazione persistente
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sintomi da somatizzazione
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maggiore predisposizione ad ammalarsi.
Spesso il caregiver può sentirsi ipercoinvolto, sentendo di aver assunto una responsabilità che non può delegare, al punto da percepire come una propria colpa anche eventuali criticità o peggioramenti nel proprio parente ammalato. L’intensità dei sintomi può essere tale da portare il soggetto a dover ricorrere egli stesso ad una cura medica. La letteratura scientifica rispetto a questo concorda sul fatto che il burden non solo danneggi la salute fisica e psicologica del caregiver, ma comprometta anche la sua capacità di accudimento. Questo crea un circolo vizioso: il caregiver sta peggio e la sua capacità di assistere il malato cala, questo porta ad un peggioramento delle condizioni del paziente, questo peggioramento amplifica le sensazioni spiacevoli nel caregiver e il circolo vizioso si perpetua.
Per questo è importante riconoscere i segnali di stress eccessivo il prima possibile. Proprio per evitare di instaurare un circolo vizioso dannoso per pazienti e caregiver. Spesso il caregiver sotto stress cerca dei modi per silenziare le sensazioni negative che prova finché queste non diventano eccessive e preponderanti.
Ma questo quotidiano resistere alle emozioni negative alla lunga logora e diventa esso stesso un problema. Quanta energia costa soffocare certe emozioni? Quanta fatica? A cosa rinunciamo per non sentire? La prospettiva psicoterapeutica è quella di interrompere questa battaglia per “non sentire” e di accogliere le emozioni, anche quelle sgradevoli, per ritrovare energie e contatto con il proprio mondo emotivo e riuscire a prendere per mano il proprio dolore per quello che è “senza sensi di colpa”.
Il caregiver deve imparare a distinguere tra “dolore pulito” e“dolore sporco” (cosa non sempre facile e spesso ansiogena). Il dolore pulito è quel dolore che deriva da piccole e grandi fatiche quotidiane e dagli eventi che normalmente ci troviamo ad affrontare, comprese perdite e lutti.
Il dolore sporco nasce invece dai nostri tentativi di non sentire le emozioni sgradevoli. E’ in definitiva un dolore in più che aggiungiamo al dolore pulito. Infatti qualsiasi strategia che usiamo per non sentire dolore di fatto rimanda al dolore stesso, in più lo amplifica. Possiamo rinviare il dolore per un breve periodo, ma non possiamo eliminarlo.
La letteratura psicologica ci viene in aiuto: dunque, la strada per stare meglio e per gestire lo stress nel Caregiver passa non dall’evitamento delle emozioni sgradevoli, ma dalla loro accettazione. Ecco perché, anche nell’accogliere la sofferenza il Caregiver può ritrovare il suo ruolo
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imparando a riconoscere i campanelli di allarme del proprio corpo e prendendo consapevolezza delle difficoltà così come si presentano: pensieri, emozioni e sensazioni difficili;
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apprendendo modi per gestire lo stress che deriva dalle nostre reazioni automatiche a queste difficoltà;
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comprendendo l’invalidità del proprio familiare come qualcosa che è al di fuori del nostro controllo e non come un problema da risolvere;
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esplorando cautamente i propri sentimenti difficili, il senso di impotenza e di perdita, al di là dei vissuti che spesso si cerca di evitare: la rabbia, la tristezza, la paura;
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migliorando la vita di tutti i giorni, scegliendo ogni comportamento non come semplice conseguenza della situazione, ma ritrovando la capacità di scegliere nel quotidiano le proprie azioni, dando loro significato.