Dott. Nicola Ghezzani – Psicoterapeuta e Formatore alla psicoterapia – Presidente di SIPSID – Società Italiana di Psicologia Dialettica è con noi per parteciparci di un aspetto della nostra società in costante espansione, inerente alle donne altamente sensibili e ai disturbi dell’affettività, oggetto del Suo ultimo successo letterario, dall’emblematico titolo, “La lingua perduta dell’amore” (Ed. Franco Angeli).
Pleonastico affermare quanto sia una lettura interessante ed esplicativa, nel riferire l’excursus storico delle donne, dal periodo paleolitico ai giorni nostri, attraverso il processo storico e psicologico che ne ha frustrato i desideri, derubandole delle loro migliori qualità. Secondo l’attuale ricerca antropologica, le donne sono state fondamentali affinché la specie umana potesse evolvere, eppure hanno subito un processo storico di degradazione che le ha subordinate al maschio, facendole sentire inferiori.
Daniela Cavallini:
Innanzitutto Dott. Ghezzani, perché secondo lei le donne, pur versando in uno stato di sofferenza ed umiliazione, si sono adattate a subire l’iniqua posizione?
Dott. Nicola Ghezzani:
Le donne hanno subito per millenni la prepotenza della casta maschile dominante e, alla fine, vi si sono adattate. Pensiamo al tasso di natalità, quindi alla coercizione a generare.
Nel corso della storia, l’autonomia femminile è sempre stata inversamente proporzionale al tasso di sviluppo demografico. Innanzitutto perché meno è stata gravata dai figli, più ha potuto sopravvivere: moltissime donne, costrette a figliare fino a dieci o dodici volte, morivano o di parto o di estenuazione. Col diritto di limitare le nascite, la donna ha potuto vivere a lungo, fino a diventare autonoma e influente.
Più è stata oppressa dalle maternità, meno ha potuto sviluppare il suo potenziale intellettuale (con l’ovvia eccezione delle classi aristocratiche di un tempo e dei ricchi in epoca moderna). Dal neolitico ad oggi, gli uomini hanno preteso che le donne fossero sempre impegnate in tante maternità da debilitarle.
Oggi le cose sembrano cambiate: è disponibile a quasi tutte una cultura della maternità qualitativa e della nulliparità. Le donne possono avere uno o due figli, farli crescere nel rispetto delle loro personali esigenze; oppure possono decidere di non avere figli, talvolta in modo inconscio e non ammesso, talaltra invece in modo del tutto consapevole.
Si tratta di una tendenza naturale e spontanea: se la donna può scegliere il suo destino, la popolazione tende a un equilibrio e le donne possono ambire a svilupparsi quanto gli uomini. Negli ultimi sessant’anni, grazie agli anticoncezionali e ad una più salda etica della maternità, le donne hanno ripreso almeno in parte il controllo della propria vita, quindi anche dei tassi riproduttivi, scegliendo se e quanti figli generare in funzione della realizzazione personale.
Daniela Cavallini:
Secondo lei, oggi le donne agiscono autonomamente sul proprio destino? Mi pare vi sia ancora molta sottomissione, soprattutto in alcune aree territoriali…
Dott. Nicola Ghezzani:
In effetti la liberazione della donna dal “dolce peso” della maternità avviene sempre solo in parte, perché fenomeni strutturali di vaste proporzioni glielo impediscono. Mi spiego: quando la tendenza alla liberazione femminile ed il parallelo calo demografico coinvolge un popolo dominante – che per un singolare paradosso, spesso coincide col soggetto politico e filosofico emancipatore –, quest’ultimo rischia di diradarsi e soccombere di fronte a popoli più numerosi e aggressivi. È il paradosso segnalato da Nietzsche, con una capacità di anticipazione che rasenta la profezia: i popoli si ingentiliscono, le donne accrescono la loro presenza pubblica, il numero degli uomini disponibili alla guerra diminuisce e quegli stessi popoli vengono sconfitti da altri popoli.
La storia è una severa maestra, e occorre seguire le sue sottili narrazioni. A ben vedere, la presa di possesso della fertilità femminile da parte del patriarcato si è riproposta mille volte nel corso della storia. Per non soccombere alle civiltà concorrenti, le civiltà di potenza hanno sempre selezionato un’orda di maschi adulti iposensibili ed aggressivi – poco intelligenti, ma ben organizzati –, che all’esterno combatte per il territorio e le risorse e, all’interno, detta le regole di vita alla popolazione: è la casta dei guerrieri. Ogni civiltà storica (da diecimila anni a questa parte) ha presupposto una casta di questo tipo. Al suo seguito ha posto una grande quantità di donne votate al culto della famiglia o all’adorazione del maschio forte, inserite nel contesto di uno Stato nazionalista o imperialista.
Quindi, quando un popolo cresce e si ingentilisce, finisce per essere sconfitto: come accadde ai Persiani con i Greci, ai Greci coi Romani, ai Romani con i Goti e gli Unni, ai nativi americani con gli anglosassoni. Tutti i popoli dominanti, che si impongono con la violenza, ripropongono il mito dell’uomo forte, del guerriero, che dispone a suo piacere della soggezione femminile per rappresentare il proprio potere in patria e per generare i propri figli.
Alla prospettiva dell’indebolimento della potenza, la risposta strategica di tutti i popoli dominanti o aspiranti tali – di cui abbiamo documentazione storica – è stata quella di assoggettare la donna, minorarla e renderla funzionale alla potenza maschile e nazionale, con la sua relativa esclusione dal potere politico-culturale e il suo relegamento nell’economia domestica e affine.
Non possiamo illuderci, accade anche oggi. Nei Paesi coinvolti nelle guerre, sia in Europa che negli altri continenti, si ripropone il tema del valore assoluto di una classe virile capace di assassinio organizzato, classe che si pone come modello e che relega le donne al ruolo ancillare. In realtà in guerra vengono mandati a morire i ragazzini; ma la casta vincente è sempre quella dei “signori della guerra” e dei loro capi militari e politici. Dietro il potere economico (anche questo potere è saldamente in mano a una casta di maschi anziani), c’è sempre il potere delle armi, precluso alle donne.
Una “chiamata di correità” va fatta anche per le grandi religioni colluse con la logica di potenza, che hanno idealizzato una femminilità consacrata al dio nell’atto della generazione, oppure in quello della oblazione assoluta alla comunità religiosa, vale a dire – in ultima istanza – ai soliti maschi dominanti.
L’emancipazione femminile è da secoli un’araba fenice che, appena raggiunto il picco dello splendore, crolla miseramente sotto la pressione di nuove guerre e nuove campagne di violenza, che riportano indietro le lancette della storia, annullando così i progressi che stavano promuovendo un cambiamento di mentalità.
Daniela Cavallini:
Mi perdoni una visione meno vittimistica… credo che anche le donne dei maschi dell’orda, traevano potere – sia pure per luce riflessa – oltreché convenienza personale…
Dott. Nicola Ghezzani:
Ovviamente. Allora come oggi, del resto. Questo dell’opportunismo è un lato importante della psicologia “servile” che cerco di analizzare nel libro. Il servo, o per meglio dire il subordinato, non è un ente passivo, è o cerca di essere il più possibile attivo e astuto.
Una parte della popolazione femminile ha sviluppato una vera e propria “intelligenza servile”: a questo proposito ci sono pagine illuminanti di Nietzsche, riprese da Bataille, Klossowski, Foucault, nonché da numerose, eccellenti psicoanaliste). L’intelligenza servile consiste nell’accampare un controllo sul proprio controllore: un potere “dal basso” che – mediante la seduttività, la cura materiale, la manipolazione – rende il presunto padrone un burattino esecutivo. La struttura generale del potere è sempre la stessa; ma in alcuni casi, l’uomo sensibile, ingenuo o connivente – che può essere a sua volta un individuo che oscilla fra servilismo e dominanza – cede di nascosto il suo potere a una donna.
In psicopatologia ho chiamato questo modello di rapporto “collusione sadomasochista” (già vent’anni fa, nel libro “Volersi male” che è del 2002).
Ancora oggi, non sono molte le donne che hanno potuto davvero emanciparsi non solo dal potere maschile oggettivo, ma soprattutto dalla fascinazione dell’uomo forte, o della “forza” in se stessa, intesa come valore morale assoluto, come anche dal sentimento di rivalità nei confronti delle altre donne. Si tratta degli stessi processi psicologici che hanno luogo nella mente dell’uomo; ma la donna si trova di fronte all’handicap di doverli portare a effetto a partire da una condizione subordinata.
I sistemi di valori e i codici mentali nati nelle civiltà storiche, basate sulla potenza militare e quindi sul concetto di “dominio”, hanno pian piano condizionato la mente femminile, tanto che nel libro ho scritto letteralmente che «L’orda non potrebbe né esistere né riprodursi se non disponesse di un’abbondante popolazione femminile servile, integrata nei ruoli tradizionali, nonché di una parte di donne ambiziose e rivendicative che ambiscono al potere, condividendo i mezzi ed i valori della cultura dominante». Cioè il potere maschile necessita della connivenza delle donne, ottenuta plasmandone l’inconscio.
Daniela Cavallini:
…Il potere maschile necessita della connivenza delle donne, ottenuta plasmandone l’inconscio!!
Questa è la risposta che in assoluto delucida perfettamente la reiterata dinamica che non conosce obsolescenza tra donne dalla personalità scarsamente dotata, disposte persino all’umiliante auto assoggettamento ad uomini che le attraggono mostrando loro un potere reale – o solo presunto – ostentato dalla raggiunta ricchezza, interpretabile come garanzia di prestigio socioeconomico. In realtà, personalmente ritengo, che non esista nulla di più mediocre che accontentarsi di brillare di luce riflessa in virtù di un precario ruolo, ottenuto con sfiancante competizione con altre “cortigiane”.
Dott. Nicola Ghezzani:
Verissimo. Ma è difficile farne una colpa alle donne, dal momento che le regole del gioco, compresa questa della competizione fra donne, sono state dettate dalla cultura dominante maschile.
A mio avviso, ogni donna dovrebbe perseguire l’autonomia morale e l’autodeterminazione, attitudini che implicano una cognizione del diritto naturale alla gioia ed allo sviluppo di sé che non escluda la coscienza empatica della vulnerabilità e interdipendenza che caratterizza ogni essere umano. Quindi associare all’autonomia un’empatia nei confronti delle donne e degli uomini altrettanto empatici.
Affiancando gli uomini migliori – che non sono molti –, le donne più consapevoli potrebbero promuovere un sistema sociale e valoriale evoluto, un sistema in grado di recuperare l’antica empatia assieme ad una modernissima etica della responsabilità globale.
Daniela Cavallini:
Dott. Ghezzani, lei è molto attento a due sostanziali caratteristiche prevalenti nella donna rispetto all’uomo: la sensibilità e l’empatia. Nel suo libro riporta ed analizza esemplificative storie di donne con personalità e stili di vita differenti che lascerei al lettore/lettrice il piacere di scoprire. Tuttavia, in coerenza con gli aspetti storici sin qui trattati, la cito:
“La natura ha dotata la femmina di Homo sapiens di strumenti affettivi raffinati e complessi, pressoché perfetti; ma le società storiche li hanno ridotti a funzioni minori, da tutelare sotto il possessivo controllo maschile. Messa sotto tutela, la femmina umana ha infine sviluppato l’adattamento sociale al prezzo di un conflitto con la sua natura originaria”.
Dott. Nicola Ghezzani:
Esattamente. L’empatia è una qualità neurobiologica che comincia ad emerge due milioni di anni fa circa, nel contesto della relazione di accudimento madre-figlio. Funzioni basilari per l’accudimento e l’educazione dei piccoli quali la sintonia, la sensibilità estetica e morale, l’emozionalità, l’intuizione, devono essere state molto diffuse fra le donne di ogni epoca. Queste donne appartenevano a quella categoria di individui che ho chiamato “iperfunzionali”, le cui caratteristiche sono la capacità di percepire l’altro e di immedesimarsi con lui, di farsi un quadro intuitivo dei rapporti umani, di reagire emotivamente al mondo sperimentando forti sentimenti morali, la capacità di immaginare mondi relazionali e sociali alternativi a quello esistente.
Ancora fino a tutto il paleolitico (fino a 15.000 anni fa circa), la socialità era solidale e cooperativa, ed era basata sull’empatia. In quel contesto – come ha dimostrato la paleontologia, in particolare Marija Gimbutas – le donne sostenevano un ruolo di rilievo, quantomeno paritario rispetto a quello maschile. Si può ritenere che la donna, grazie alla sua utilità sociale ed alle sue elevate qualità neuropsicologiche, abbia esercitato per centinaia di migliaia di anni ruoli di grande prestigio.
Nel neolitico ci fu un tragico mutamento storico: gli esseri umani, che per milioni di anni avevano vissuto in piccoli gruppi occupanti spazi immensi, si ritrovarono a coesistere in popolazioni sempre più numerose e in territori sempre più poveri. Il contatto con altri popoli generò la scintilla dell’”invenzione” della guerra sistematica e organizzata a fini di rapina e assoggettamento dei popoli più deboli. Dunque un’attitudine che era solo potenziale, la guerra, è diventata uno dei caratteri tipici dei popoli umani.
Va da sé che l’attitudine alla violenza intraspecifica, presuppone una dotazione iposensibile, cioè poca sensibilità empatica sin dalla nascita, ma anche la creazione di valori specifici orientati a promuovere l’insensibilità nei confronti dei popoli dominati. Fu il gruppo dei maschi iposensibili (non tutti i maschi, solo una parte di essi), a profittarne.
Daniela Cavallini:
E qui ci riconduciamo al criterio di dominio e sottomissione – soprattutto femminile – cui lei ha dedicato un capitolo molto approfondito, descrivendone i codici ed i relativi comportamenti.
Dott. Nicola Ghezzani:
Le culture fondate sulla guerra e la supremazia maschile hanno generato nei secoli il loro codice mentale specifico: il “codice gerarchico” o “codice patriarcale”. È un codice che implica la rigorosa definizione del superiore e dell’inferiore, del forte e del debole, del dominante e del dominato.
Nella vita sentimentale il codice gerarchico deforma i caratteri naturali dell’amore e fa sì che l’innamorato ami nell’amato la sua qualità – vera o presunta – di essere superiore, la forza di chi basta a se stesso e non ha bisogno di alcun legame amoroso. Alla luce del mito della forza, l’innamorato, che ha bisogno del suo amato sino ad idolatrarlo, si sente e si considera inferiore al suo amato. Ecco, qui è evidente come Il codice patriarcale abbia lasciato il suo segno: secondo questo codice, se sei innamorato hai bisogno dell’altro, quindi sei un suo inferiore, sei il debole della situazione, e sei condannato ad amare un idolo che non ha altrettanto bisogno di te. Il feticcio di forza di cui tante donne si innamorano (il famoso “narcisista”) ha proprio queste caratteristiche: appare forte, o comunque pieno di bisogni da soddisfare, e alla fine non ti riconosce nulla in cambio.
Daniela Cavallini:
Il rifiuto da parte dell’amato, paradossalmente, diviene per l’innamorato lo stimolo per servire l’amato sempre di più ed ancor meglio, per rendersi degno di stargli a fianco. Una dinamica che, debitamente contestualizzata nel contesto odierno, rispecchia molte donne disposte a qualsiasi umiliazione pur di restare legate ad un uomo, anzi a quell’uomo. Una sorta di dipendenza affettiva?
Dott. Nicola Ghezzani:
La dipendenza compulsiva da colui che non ti ama è oggi dolorosamente diffusa, tanto che noi psicologi abbiamo potuto individuare una nuova categoria psicopatologica, ovvero la dipendenza affettiva, cui lei si è riferita. La dipendenza affettiva consiste proprio nell’amare fino allo sfinimento un partner che sembra avere solo bisogni, nient’altro che bisogni, in modo assoluto e perentorio e che rifiuta la reciprocità. Anche quando sembra un bambino, in realtà è un padrone. La dipendente affettiva ama il suo partner come un idolo perfetto o come un neonato da accudire sistematicamente, pena il senso di colpa di non essere stata abbastanza. A questo argomento ho dedicato il libro “L’amore impossibile”, del 2015.
Daniela Cavallini:
Dal codice gerarchico, discendono altri due codici: servile ed anestetico, direi uno l’opposto dell’altro, contraddistinti da adeguamento e sottomissione il primo e da dominio ed insensibilità il secondo che, pur tuttavia formano e regolamentano i rapporti tra gli appartenenti alle due tipologie di personalità, soprattutto nella coppia.
Dott. Nicola Ghezzani:
Infatti il codice servile, suggerisce alle vittime di adeguarsi con rassegnazione – talvolta addirittura con piacere – al loro statuto di soggezione e inferiorità; il codice anestetico, ammonisce i vincitori a mantenere la loro supremazia godendone i privilegi, integrando nella propria personalità l’anestesia dei sentimenti empatici ed il godimento della sofferenza altrui. Dunque, l’umanità è stata divisa in due grandi compagini simmetriche: da un lato i “compiacenti”, educati alla dipendenza e alla remissività, in gran parte donne, ma anche quegli uomini altamente sensibili incapaci di esprimere aggressività distruttiva; e dall’altro i “profittatori”, educati all’insensibilità, cioè tutti coloro che costituiscono lobby intese alla gerarchia e alla prepotenza, ed esercitano il comando senza pentimento, o coloro che approfittano dello stato di minorità altrui per estrarne risorse emotive e fisiche, denaro, lavoro, affetti.
Nella maggioranza delle donne, per moltissimi secoli, il codice culturale che ha canalizzato il loro bisogno risponde ad una gerarchia asimmetrica: la femmina consente che il maschio la domini sia nel contesto sociale che nell’immaginario morale. E anche qualora abbia assunto qualche ruolo di rilievo si guarda bene dal criticare il sistema sociale alla sua radice e si limita a godere dei suoi privilegi, in piena anestesia morale.
Aggiungo, per concludere, che come esiste una psicopatologia che colpisce le persone compiacenti – che sono perlopiù altamente sensibili –, esiste anche una psicopatologia che colpisce almeno alcune – le più sensibili – fra le persone che hanno fatto una scelta di insensibilità. «Deus sive Natura», diceva Spinoza. Se non c’è giustizia divina, c’è comunque la natura a farne le sue veci.
Daniela Cavallini:
Dott. Ghezzani, nel suo libro sono insite nozioni di vita vissuta con relative derivazioni da periodi storici, riferimenti in qualità di Psicoterapeuta di casi dei giorni nostri constatati ed analizzati dei quali ne esamina sentimenti e comportamenti. Le confesso il rammarico che mi procura l’inevitabile interruzione di questa intervista, tuttavia, convenendone l’ovvietà, concludo ringraziandola e citando il messaggio della Psicoanalista Statunitense Polly Young-Eisendrath rivolto ad un pubblico femminile:
“in tutti i campi della nostra vita – dalla cura dell’aspetto esteriore, al sesso, alla maternità, ai soldi, fino alla spiritualità – ci troviamo ad esitare ad infrangere le regole, ad oltrepassare i limiti che il dominio maschile ha imposto attraverso i secoli. Questo ci impedisce di diventare consapevoli dei nostri veri desideri e di vivere secondo le nostre intenzioni. Quindi è necessario che le donne infrangano ed oltrepassino i limiti imposti e giungano ad esercitare il libero arbitrio. Dobbiamo capire che nella società patriarcale, il destino della donna è quello di non essere libera, perciò, se vogliamo diventare esseri umani autonomi in grado di decidere per noi stesse, dobbiamo cambiare le vecchie regole del gioco”.