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Tra le cose che fanno più paura oggi, di certo la malattia e la morte, ma ancor più morire in solitudine ed essere soli ad affrontare una malattia grave.
Del resto nella nostra società occidentale vita e morte non sono più complementari o le due facce della stessa medaglia, la vita, anzi, le abbiamo separate come concetti, quasi slegati l’uno dall’altro, addirittura incompatibili e da tener divise. La vita e la negazione della morte, quale concetto da tener più lontano possibile.
INTRODUZIONE LA VITA E LA MORTE
Sebbene la morte sia la naturale conclusione della vita, viene affrontata con rabbia e desolazione prima ancora della sua accettazione, se non si è preparati ad affrontarla.
La morte fa parte della vita e, come tale, dovrebbe essere un passaggio da affrontare in modo consapevole anche se la paura è inevitabile, come tutto ciò che è ignoto fa paura. Soprattutto accompagnando la persona morente, facendo in modo che questo passaggio possa essere accettato come il più naturale possibile. Allo stesso modo i famigliari e i caregiver, che si trovano a dover gestire l’imminenza della morte lutto, non andrebbero lasciati a se stessi.
Affrontare il fine vita e restare accanto ad un malato che sta per morire e come farlo, inevitabilmente passa per un rispecchiamento della morte negli occhi dell’altro, non può essere affrontata senza consapevolezza del confronto intimo e personale con l’ineluttibilità della morte e con la precarietà della vita.
Secondo Emmanuel Lévinas (1993) è l’Esercizio di morte per la significazione della vita, il volto dell’Altro è ciò che più intimamente appartiene alla nostra soggettività, e quando questi muore la sua morte ci riguarda profondamente in prima persona, quindi ci intacca, ci travolge. Dunque la morte non può che essere un evento relazionale, tanto individuale quanto sociale, e da ciò deriva la necessità di comprenderne il significato.
L’angoscia di morte nell’epoca moderna è stata gestita spostando l’attenzione alle sue cause, per cui la morte cessa di essere naturale ed è sempre “colpa” di qualcosa o di qualcuno! Il risultato è una non accettazione della dimensione naturale dell’esistenza, caratterizzata da vulnerabilità e finitudine. Si cerca a tutti i costi una terapia dalla medicina, che deve guarire, mentre la cura è “dis-umanizzata” dall’accanimento terapeutico e dalle evidence based che applicano protocolli standard e hanno tolto la soggettività al malato.
Rendere la medicina più “umana”
Nell’Occidente industrializzato la medicina ha intrapreso un percorso di straordinari sviluppi, che ha avuto enormi e positive conseguenze sulla morbilità e la mortalità degli esseri umani, ma che l’ha portata sempre più lontano da un approccio «olistico», cioè capace di guardare non solo alla dimensione organica della salute e della malattia, ma anche a quelle psichica, affettiva, sociale, culturale, economica e politica, che pure la comprendono.
Abbiamo dimenticato l’importanza della morte.
l rifiuto di affrontare la propria morte non garantisce che si viva meglio, lascia solo convivere con dei fantasmi. (Irene Testoni – Università Padova)
La visione buddista
Dimenticare la morte è dare la vita per scontata e quindi inseguire il miraggio della gratificazione compulsiva. Se invece siamo disposti a toccare con mano il suo carattere precario, ci accorgiamo di quanto la vita sia preziosa.
Aprirci a ciò che abbiamo sempre cercato di ignorare ci libera dal controllo che esercita su di noi. Riportare in vita l’antica pratica buddhista del fare amicizia con la morte è uno dei modi per scoprire questa libertà.
La morte ci mette di fronte senza mezzi termini all’innegabile verità dell’impermanenza.
Dimenticare la morte è dare la vita per scontata e quindi inseguire il miraggio della gratificazione compulsiva. Se invece siamo disposti a toccare con mano il suo carattere precario, ci accorgiamo di quanto la vita sia preziosa.
Le grandi tradizioni religiose e spirituali hanno sempre posto nel morire, nel mistero della morte, il fulcro dell’esistenza.
Quando consideriamo la morte vicina, a portata di mano, il nostro bisogno di gratificazione diventa meno ossessivo. Impariamo a prendere noi stessi e le nostre idee un po’ meno sul serio, e a lasciare perdere con più facilità.
Ci apriamo di più alla generosità e all’amore, ci sentiamo più disposti alla gentilezza reciproca e al perdono.
La tradizione da abbandonare
Lo scopo della medicina tradizionale è quello di curare, inteso nel senso di attuare protocolli e manovre atti a rimuovere la malattia. Dunque l’obiettivo finale è di guarire e prolungare la vita. Quando il paziente ha una patologia “incurabile”? La medicina non è in grado di eliminare la malattia, dunque Fallisce. La medicina curativa non può prendersi carico del malato quando viene considerato “una persona per la quale non c’è più nulla da fare” la medicina avendo espulso il pensiero di morte ed operato in base a criteri di quantità, ovvero allungare la vita più possibile, la medicina curativa non può assistere la persona morente.
Fortunatamente le cose stanno cambiando.
La medicina palliativa nasce proprio per superare questo impasse tradizionale, rifiuta il concetto che non si possa fare nulla per il paziente morente, per abbracciare una visione multidisciplinare e assistenziale.
L’art. 415 del codice deontologico, afferma che l’infermiere deve prendersi cura del paziente da tutti i punti di vista, dunque avvalendosi anche di figure professionali non sanitarie a supporto del malato.
Il personale sanitario non è preparato per affrontare il confronto con il dolore e la morte, causando ulteriore sofferenza, talvolta espressa in modo difensivo con cinismo e distacco, isolamento ciò a causa della difficoltà a confrontarsi con il dolore e con la morte, anche quando si è preparati e del rischio di burn out.
Saper accompagnare e Aiutare gli altri ad affrontare la morte.
(Frank Ostaseski)
Il processo del morire dovrebbe infatti essere accompagnato, in modo da rendere la morte meno dolorosa e meno traumatica sia per chi muore sia per chi resta.
La Death Doula
In Italia, sia la Doula (che accompagna le partorienti prima e dopo il parto) che la Death Doula (che accompagna il morente e i suoi famigliari nell’accettazione e nella gestione del fine vita) sono figure ancora poco conosciute.
Innanzitutto è un termine che in origine si riferiva al femminile, mentre il ruolo del Death Doula riguarda entrambe i sessi, femminile e maschile
Dunque si tratta di una figura di accompagnamento alla morte che dovrebbe una presenza fissa negli hospice e negli ospedali, anche a sostegno del lavoro della psico-oncologia, due figure che possono integrarsi per offrire sostegno e disponibilità costanti ai malati e ai loro familiari o ai caregiver. Il ruolo è quello di accompagnare il morente e i suoi famigliari nell’accettazione e nella gestione del fine vita, dagli aspetti spirituali a quelli più prettamente pratici, finchè si è in vita e nel dopo, riconoscendo la morte come una fase naturale della vita. In Italia, tanto la Doula quanto la Death Doula sono figure ancora poco conosciute, senza riconoscimento da parte del servizio sanitario nazionale, mentre si vanno sempre più affermandosi in Regno Unito, Stati Uniti e Canada.
In questi paesi – scrive nella sua tesi Martina Frullanti, dottoranda del Master in Death Studies & the End of Life dell’Università di Padova – “esistono Associazioni che organizzano corsi di formazione per diventare Death Doula. In Italia l’unica strada per avvicinarsi alla possibilità di prendersi cura del fine vita è quella del volontariato, attraverso la rete delle cure palliative.”
Quali sono i compiti della Death Doula
La Death Doula si occupa principalmente di tre aspetti, riguardanti la gestione degli ultimi momenti di vita del proprio assistito
Eccoli:
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Pianifica, insieme al morente e alla sua famiglia, gli ultimi giorni di vita, intraprendendo un percorso di riflessione sulla vita trascorsa e aiutando a elaborare
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Crea uno spazio adeguato alle esigenze del morente, cerca di assecondare i suoi desideri. Anche, ad esempio: l’abbraccio dalle persone care, la musica preferita come sottofondo, i profumi e il tipo di luce preferita. Anche scegliere dove morire è un aspetto fondamentale, se la persona ha la necessità di lasciare la propria abitazione per trascorrere gli ultimi giorni in una struttura adeguata, la Death Doula avrà il compito di allestire la camera con, ad esempio, le foto delle persone amate o alcuni oggetti che ricordino casa. La Death Doula saprà, infine, illustrare i segni e i sintomi della morte e costruirà, insieme alla famiglia e agli amici, rituali per vivere serenamente l’ultimo viaggio.
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La Death Doula gestisce anche piccole incombenze pratiche per conto dei famigliari, che sono così liberi di vivere il proprio dolore senza preoccupazioni. La Death Doula, infine, rimane in contatto con la famiglia da tre a sei settimane dopo il decesso del famigliare, perché è proprio in quel lasso di tempo che il vuoto lasciato dalla perdita si fa maggiormente sentire.