OSTEOPOROSI E COVID-19: C’È INTERFERENZA TRA VACCINI E TERAPIE PER LA FRAGILITÀ OSSEA?

Stimolato da numerose richieste di chiarimenti da parte dei Pazienti in questi giorni che la vaccinazione è diventata pressoché obbligatoria, in maniera palese, come per noi medici, o surrettizia come per il lasciapassare governativo, ho cercato di approfondire la possibilità di interferenza, positiva o negativa, tra vaccinazione anti COVID-19 e le varie terapie utilizzate nella sindrome da fragilità ossea od osteoporosi/osteopenia che dir si voglia.

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Ad oggi, fine novembre del 2021, il virus della pandemia di coronavirus 2019 (COVID-19), ha infettato 254.847.065 persone nel mondo e ha provocato 5.120.712 morti (fonte: Salute.gov.it). Oltre alle gravi manifestazioni della malattia attribuibili all’infezione da COVID-19 di per sé e alle sue numerose complicanze associate, il COVID-19 ha avuto un enorme impatto sulle pratiche cliniche e sociali di routine e ha introdotto sfide finora non considerate per la gestione di molte patologie croniche. La segregazione domiciliare prolungata, il lavoro negli spazi spesso inadeguati della propria abitazione, i divieti di viaggio, le quarantene, ma anche lo stesso distanziamento sociale ha comportato una riduzione dell’attività fisica e atteggiamenti più sedentari. Ciò ha portato ad una perdita di massa muscolare che è correlata notoriamente con la massa ossea. Rispettando, forse, una gerarchia delle patologie, molte malattie sono state trascurate, riducendo la possibilità di accesso alle strutture sanitarie un po’ per timore di contagiarsi, un po’ per impedire potenziali assembramenti nelle aree di attesa un po’, ma non per ultimo, a causa della riorganizzazione del personale sanitario distolto dalle precedenti mansioni.

Stimolato da numerose richieste di chiarimenti da parte dei Pazienti in questi giorni che la vaccinazione è diventata pressoché obbligatoria, in maniera palese, come per noi medici, o surrettizia come per il lasciapassare governativo, ho cercato di approfondire la possibilità di interferenza, positiva o negativa, tra vaccinazione anti COVID-19 e le varie terapie utilizzate nella sindrome da fragilità ossea od osteoporosi/osteopenia che dir si voglia.

Prima di tutto è necessario domandarsi se esiste una motivazione per dare priorità per la vaccinazione ai pazienti con osteoporosi.

In effetti, le fratture vertebrali sono state identificate come un predittore di scarsi miglioramenti tra i pazienti ospedalizzati con COVID-19 in quanto, probabilmente, fratture vertebrali multiple possono causare ad una cifosi dorale patologica con compromissione della meccanica respiratoria. Tuttavia è anche ipotizzabile che la fragilità ossea sia solamente un aspetto della comorbilità presente nelle fasce più anziane della popolazione, quelle cioè a maggior rischio di eventi particolarmente gravi. Un rachide plurifratturato va comunque tenuto presente come fattore di rischio a sé stante quando ci si riferisce a Pazienti più giovani. In una ricerca epidemiologica, in effetti, l’osteoporosi ha dimostrato di influenzare in senso negativo la prognosi nei pazienti infetti da COVID-19 pur in assenza di prove decisive di un legame diretto tra l’osteoporosi e la gravità del COVID-19. Al contrario, invece, sembra che l’infezione da COVID-19 abbia un impatto negativo sella fragilità ossea con vari meccanismi che potranno essere discussi in un successivo articolo.

La supplementazione di calcio e, soprattutto, di vitamina D, gli esercizi con pesi, il mantenimento di una dieta equilibrata non devono essere interrotte al momento della vaccinazione o successivamente. Esistono infatti alcune prove che la vitamina D sia un facilitatore dell’immunocompetenza sia per quanto riguarda l’immunità innata che quella adattativa nel contesto di infezione da COVID-19, come indicato in mio precedente articolo e riconfermato da recenti pubblicazioni scientifiche. 

Ad oggi, non ci sono prove che qualsiasi terapia per l’osteoporosi aumenti il ​​rischio o la gravità dell’infezione da COVID-19, alteri il decorso della malattia (in modo positivo o negativo) o interferisca con l’efficacia o il profilo degli effetti collaterali della vaccinazione antiCOVID-19. D’altra parte, a seconda dell’agente farmacologico utilizzato, l’interruzione del trattamento dell’osteoporosi potrebbe avere implicazioni significative sul rischio di frattura da fragilità. 

Prendiamo ora in esame i più comuni trattamenti anti osteoporotici.

I bifosfonati ad esempio. Non c’è motivo di supporre che la vaccinazione COVID-19 possa causare intolleranza ai bifosfonati o che il trattamento con bifosfonati riduca l’efficacia del vaccino COVID-19. Gli eventi avversi dei bifosfonati orali sono totalmente diversi da quelli post-vaccinali e quindi non confondibili. Anche dal punto di vista dell’interferenza biochimica o immunitaria non vi sono ugualmente interferenze. Pertanto i bifosfonati orali non devono essere sospesi al momento o successivamente alla vaccinazione contro il COVID-19. Differente, invece, è il caso dell’utilizzo dei bifosfonati di prima generazione per via intramuscolare, il neridronato in primis, spesso utilizzato off label nel trattamento dell’osteoporosi. Una sintomatologia polimialgica è spesso presente. Non è opportuno, quindi, effettuare la terapia nei giorni immediatamente precedenti o successivi alla vaccinazione.

I bifosfonati per via endovenosa, come lo zolendronato, sviluppano spessissimo una reazione infiammatoria post-infusione, in particolare nei pazienti che iniziano il trattamento per la prima volta. Questa reazione sembra almeno in parte attribuibile all’attivazione indiretta delle cellule T, con successivo rilascio di interferone-γ e fattore di necrosi tumorale alfa (TNF-α) nella circolazione sistemica. Poiché le reazioni di fase acuta sono un effetto collaterale riportato sia dell’adenovirus ricombinante a base di vettore che a base di mRNA è prudente scaglionare i tempi di somministrazione tra un bifosfonato per via endovenosa e un vaccino COVID-19. Anche in questo caso è importante sottolineare nuovamente che ad oggi non esistono dati che suggeriscano che la somministrazione concomitante di questi due trattamenti possa alterare il profilo degli effetti collaterali e/o ridurre l’efficacia del vaccino con bifosfonati o COVID-19. Tuttavia è opportuno un intervallo di almeno 1 settimana per consentire di distinguere tra presunte reazioni di fase acuta risultanti dalla somministrazione endovenosa di bifosfonati o dalla vaccinazione COVID-19 dato che la durata media dei sintomi post infusione è di circa 3 giorni.

Un altro farmaco molto spesso utilizzato è il Denosumab che è un anticorpo monoclonale umanizzato che si lega e inibisce l’attivatore del recettore del ligando del fattore nucleare κ-Β (RANKL). Il RANKL, tuttavia, è presente anche nell’uomo all’interno delle cellule del sistema immunitario, dove svolge un ruolo nell’attivazione delle cellule T. Pertanto, tenendo conto del ruolo dell’immunità innata e specificamente dell’attivazione delle cellule T nella risposta dell’ospite a SARS-CoV-2, una compromissione della risposta immunologica guidata dalle cellule T alla vaccinazione contro il COVID-19 attraverso l’inibizione del RANKL mediata dal denosumab non può essere esclusa. Anche in questo caso non vi sono prove ad oggi di una interferenza negativa sulla vaccinazione ma, empiricamente e basandosi sulle conoscenze attuali è forse opportuno somministrare il vaccino nella fase di ridotta attività del denosumab, circa dopo il 4 mese dalla inoculazione o far intercorrere almeno 3 settimane prima di somministrare nuovamente il denosumab dopo la vaccinazione contro il COVID-19 per dare modo alla risposta anticorpale di potersi instaurare senza interferenze.

Il nuovissimo Romosozumab è anch’esso un anticorpo monoclonale umanizzato che si lega e inibisce l’attività della sclerostina. La sclerostina inibisce la via di segnalazione della proteina Wnt prodotta dagli osteociti, fondamentale per la maturazione degli osteoblasti. Viene fornito sotto forma di due iniezioni sottocutanee concomitanti una volta al mese per 12 mesi, dopodiché dovrebbe essere seguito da un’altra terapia dell’osteoporosi (tipicamente anti-riassorbitiva) per sostenere gli effetti anabolici scheletrici previsti. Un recente articolo documenta l’attività dell’infezione da COVID-19 sul TNF-α e interleuchina-1β (IL-1β), incrementandola, attività confermata anche da una ricerca effettuata in Cina su 3939 pazienti che ha dimostrato l’incremento della secrezione di citochine, in particolare IL-6, IL-1β, IL-10, TNF-α, GM-CSF, IP-10, IL-17, MCP-3 e IL-1ra. Poiché sia il TNF-α che l’interleuchina-1β (IL-1β) stimolano l’attività della sclerostina, il trattamento con romosozumab non solo non è da sospendere ma, pur se in linea puramente teorica, potrebbe addirittura essere sinergico. Tuttavia poiché reazioni sul sito di iniezione del braccio come dolore, gonfiore ed eritema sono state segnalate come effetto indesiderato sia della somministrazione del romosozumab che della vaccinazione COVID-19, un intervallo di 4-7 giorni tra queste iniezioni, o in alternativa l’iniezione del romosozumab in altra sede se in concomitanza con la vaccinazione COVID-19, sarebbe opportuna.

Uno dei farmaci maggiormente efficaci per il trattamento dell’osteoporosi è la Teriparatide che influenza positivamente la microarchitettura ossea e limita il riassorbimento con un bilancio positivo nel metabolismo osseo. L’abaloparatide, quasi un clone, almeno nella funzione, della teriparatide, ha caratteristiche sovrapponibili. Nessun farmaco è stato associato ad un aumento del rischio di infezioni o effetti immunomodulatori, né è stato descritto come causare reazioni di fase acuta. Sia la teriparatide che l’abaloparatide possono indurre reazioni locali nel sito di iniezione, ma poiché i siti di somministrazione non coinvolgono lo stesso sito del vaccino COVID-19 non è possibile confondere gli effetti locali delle due somministrazioni. Pertanto, sia teriparatide che abaloparatide possono e devono essere continuati nei pazienti sottoposti a vaccinazione contro il COVID-19.

Un’altra categoria di farmaci utilizzati per contrastare la sindrome da fragilità ossea è rappresentata dei SERM o stimolatori selettivi dei recettori estrogenici. È stato recentemente dimostrato che il raloxifene ed il bazedoxifene a dosi terapeutiche inibiscono la via di segnalazione dell’interleuchina 6 (IL-6), suggerendo un ruolo putativo dei SERM nella prevenzione della tempesta di citochine che accompagna l’infezione da COVID-19 e suggerendo, in via teorica, un potenziale riutilizzo del farmaco nel trattamento di tale infezione. Infatti i dati epidemiologici mondiali hanno mostrato una mortalità più elevata nei maschi rispetto alle femmine, ipotizzando un effetto protettivo degli estrogeni contro la progressione della malattia verso forme gravi o mortali. Non sono note interazioni tra SERM e vaccini COVID-19 e non provocando, inoltre, la terapia con le molecole ad attività di stimolazione selettiva dei recettori estrogenici alcuna reazione immediata la loro somministrazione non deve essere interrotta al momento o successivamente alla vaccinazione COVID-19.

Analogamente la medesima conclusione deve essere considerata valida anche per la terapia ormonale sostitutiva e, nel campo della nutraceutica, per i fitoestrogeni.

Questo articolo è stato redatto grazie all’associazione no-profit O.I.Q.O. aps, Osservatorio internazionale della qualità dell’osso la bibliografia scientifica su cui è stato basato è disponibile per i soci dell’associazione inviando una mail a osservatoriointernazionale.oiqo@gmail.com

Dott. Gianfranco Pisano Laureato in Medicina e Chirurgia all’ Università la Sapienza Roma Master in Medicina dello Sport, Università di Siena Master malattie metaboliche dell'osso, osteoporosi, Università di Firenze Master Fitoterapia, Università di Trieste e Computense di Madrid

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