Fra i fattori di rischio che maggiormente correlano con l’ADHD e oggi più monitorati ci sono quelli ambientali: condizioni socio-economiche svantaggiose ed il contesto educativo caotico, poco normativo o troppo rigido (scuola oppressiva, instabilità familiare, conflitto genitoriale, scarsa competenza genitoriale, disturbi psicologici dei genitori, esperienze traumatiche precoci, relazione d’attaccamento disfunzionale con il caregiver, bisogni di attenzione non corrisposti durante l’infanzia) (Lambert & Harsough 1984; Barkley 1990; Olson 1996; Ladnier e Massanari 2000; Stiefel 2002). Correlazioni significative tra la qualità della relazione del bambino con i genitori ad un anno di vita e le capacità scolastiche sociali, i livelli di ansia e di salute generale del bambino nella scuola primaria e secondaria sono anche negli studi di Goldberg, Muir & Kerr (1995). Queste correlazioni sono sostenute dalle evidenze che le esperienze di traumi evolutivi e dell’attaccamento traumatico (violenza assistita o diretta, trascuratezza da parte delle figure di accudimento) implicano nelle risposte traumatiche in generale e soprattutto nei bambini, che hanno ancora poco sviluppate le aree inibitorie corticali delle orbite frontali superiori, pattern di sintomi sovrapponibili a quelli dell’ADHD, sostenuti da identiche modificazioni della funzionalità neurofisiologica.
Tanto nell’ADHD quanto nelle risposte traumatiche si riscontrano, infatti, sintomi cognitivi da deficit metacognitivi, difficoltà di concentrazione, pensieri intrusivi, stati della coscienza obnubilati, difficoltà a prendere decisioni, disturbi del sonno, elevato arousal con impulsività ed iperattività motoria, disturbi e disregolazione dell’umore e conseguenti condotte discontrollate o evitanti (fra cui anche l’abbandono della scuola per le implicazioni della bassa tolleranza alla frustrazione nelle dinamiche interpersonali e nei rendimenti scolastici).
D’altra parte i comportamenti dei bambini con ADHD possono rappresentare delle strategie finalizzate a regolare la relazione con il genitore che sia evitante o ambivalente. Quando il genitore distoglie l’attenzione del bambino da sé, il bambino orienta la propria con comportamenti iperattivi e disorganizzati verso l’ambiente esterno che funge da distrattore. Il fare compulsivo del bambino si sostituisce al sentire. Quando invece il genitore richiama l’attenzione del bambino su di sé, mettendo però al centro i propri bisogni senza sintonizzarsi con i suoi, allora il bambino focalizza la propria attenzione sul monitoraggio continuo del genitore ed esclude dal proprio campo l’ambiente. In questo caso disattenzione ed iperattività sono connessi alla risposta del genitore, svolgendo funzione coercitiva e di controllo su di essa. Perciò, come già accennato, la diagnosi dell’ADHD deve basarsi su un’accurata valutazione clinica del bambino/adolescente in diversi contesti, scuola famiglia, ambiente sociale e coinvolgere tutti gli attori di tali contesti, oltre al bambino/adolescente anche insegnanti e familiari.
L’intervento per l’ADHD è quindi rivolto sia al bambino che alla famiglia e alla scuola e deve essere adattato alle caratteristiche del soggetto in base all’età, alla gravità dei sintomi, ai disturbi secondari, alle risorse cognitive, alla sua situazione familiare e sociale.
Nei confronti del bambino vengono indicate sia psicoterapie cognitivo comportamentali che farmacologiche. Si insegnano direttamente al bambino strategie di autoregolazione di auto-monitoraggio e di problem-solving, in setting individuale o di gruppo, mediante l’utilizzo delle auto-istruzioni, di rinforzo positivo per l’autostima e le abilità sociali.
Alle famiglie è indicato l’intervento psicoeducativo, il parent training ma soprattutto l’analisi dei propri schemi di accudimento. I genitori sono informati sull’ADHD e coinvolti attivamente per facilitare le relazioni con i padri dei propri figli, supportarli nelle acquisizioni delle abilità sociali, nell’interpretazione corretta dei comportamenti disfunzionali, nella gestione di strategie educative adeguate. Ai genitori viene insegnato ad autosservarsi, in modo che il comportamento dei figli si modelli sul loro. Alla scuola sono pure dedicati sia interventi psicoeducativi che il training per insegnanti. Si insiste
sull’apprendimento di capacità di osservazione ed interpretazione corretta del comportamento del bambino in classe, di strutturare spazi, tempi e compiti, in modo da sostenere l’apprendimento del soggetto con ADHD, la sua integrazione con la classe e all’interno di una buona relazione con l’insegnante.
In tutti i contesti si dovrebbe evitare di
Ripetere in continuazione «Stai fermo»: essendo l’iperattività il sintomo di una difficoltà riconosciuta, difficilmente potrà essere controllata dall’alunno.
Pretendere che stia sempre seduto: il bambino con ADHD ha necessità di movimento e quindi gli può essere concesso di muoversi un po’ di più rispetto agli altri indicando quali movimenti sono consentiti (ad es., raccogliere i compiti dei compagni, consegnare fotocopie, ecc.) e quali non lo sono (ad es. insegnargli modalità attive per richiedere il proprio turno di parola o prendere parte a una attività.
Intervenire con ripetute punizioni, note, castighi: poiché i ragazzi con ADHD possono presentare bassi livelli di autostima, dovuti anche alla loro incapacità di raccogliere valutazioni positive, eventuali punizioni possono avere una ricaduta importante sul senso di autostima. Eventuali note negative possono essere comunicate a patto di ribadire che sono capaci di fare meglio; d’altra parte le ripetute note negative non hanno effetti significativi nel modificare i comportamenti.