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Prima di iniziare la trattazione della correlazione tra vitamina D e rischio cardio vascolare, sembra opportuno ricordare che esistono due forme di vitamina D: l’ergocalciferolo (D2) e il colecalciferolo (D3). Il primo è presente per lo più in alimenti di origine vegetale, oppure viene addizionato in alimenti fortificati (latte, cereali, succo d’arancia) o utilizzato per formulare integratori; il secondo invece è presente in cibi di origine animale (pesci grassi come salmone, tonno e sardine, olio di fegato di pesce, tuorlo d’uovo) oppure viene sintetizzato dai cheratinociti tramite esposizione della cute ai raggi UV-B.
La vitamina D, qualsiasi sia la sua origine, a questo punto, viene idrossilata nel fegato in 25(OH)D, a sua volta convertita nei reni in 1,25(OH)2D da una alpha-idrossilasi. La vitamina attiva possiede un recettore (VDR) a livello delle membrane nucleari e va a mediare la trascrizione e traduzione di specifici geni, modulando la sintesi di determinate proteine.
I maggiori effetti biologici che la vitamina D può avere nell’organismo sono:
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Incrementare l’assorbimento di calcio e fosforo nell’intestino;
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Regolare il riassorbimento di calcio e fosforo a livello tubulare del rene;
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Sopprimere la sintesi di PTH a livello delle paratiroidi;
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Consentire la mineralizzazione e l’attivazione degli osteoblasti;
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Sostenere la sintesi di insulina nel pancreas;
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Consentire modifiche strutturali a livello dell’apparato cardio-vascolare tramite modulazione delle cellule endoteliali e del sistema renina-angiotensina-aldosterone.
L’articolo scientifico di Porto C., De Lima S. et al. del 2017 mette in luce come un deficit di vitamina D determini una maggiore probabilità di morte per tutte le cause, non meno per patologie cardiovascolari (la probabilità, infatti, aumenterebbe di più di 20 volte).
In particolar modo, in questo contesto, si vuole investigare la correlazione tra vitamina D e patologie cardiovascolari. A livello delle cellule endoteliali la vitamina D è in grado di evitare lo shift delle cellule endoteliali in cellule protrombotiche e dare adito a conseguenti fenomeni apoptotici, inoltre permette anche di evitare la cascata di eventi che determina la coagulazione piastrinica.
A livello delle fibrocellule muscolari lisce, invece, la vitamina D determina una diminuzione della progressione della placca aterosclerotica e un aumento delle caratteristiche di elasticità che impediscono la rottura della stessa.
Fondamentale è anche il controllo del meccanismo lipidico ad opera della vitamina D, che determina una diminuzione di LDL e trigliceridi ed un aumento dell’HDL. Questo risulta di fondamentale importanza, in quanto il colesterolo LDL ossidato è quello che determina una attivazione del fattore proinfiammatorio Nf-kb che dirige la sintesi del recettore di membrana del TF (fattore tissutale), che conduce la cascata infiammatoria.
Ancora i meccanismi protrombotici sono regolati positivamente dalla vitamina D, in quanto l’attività di TH1 (linfociti T Helper 1) e TH 17 (linfociti T Helper 17) viene inibita, con conseguente inattività di IL 17 (interleuchina 17) e TNF alpha (tumor necrosy factor) coinvolti nell’infiammazione, mentre viene incentivata l’attività di TH 2 (linfociti T Helper 2) che è un modulatore negativo di TH1.
Inoltre 1,25(OH)2D è in grado di inibire la renina, impedendo all’angiotensina I e poi all’angiotensina II di diminuire la pressione sanguigna e di diminuire il volume extracellulare.
Non per ultima, l’azione della vitamina D, determina una inibizione dei macrofagi e dei monociti, cellule in grado di dare inizio alla risposta infiammatoria.
Dunque, inibendo la risposta infiammatoria, la vitamina D risulta essere in grado di diminuire il rischio cardio vascolare, lo scompenso cardiaco e l’ischemia, ma anche di diminuire la probabilità di contrarre una delle seguenti patologie: sindrome metabolica, intolleranza glucidica (di fatti la vitamina D è in grado di incentivare l’attività delle cellule beta nel produrre insulina, evitando l’insulino-resistenza e quindi il diabete mellito di tipo II), obesità, ipertensione e dislipidemia.
Studi del 2019 di JoAnn E. Manson, M.D. et al. hanno anche messo in luce come una supplementazione tramite integratori o farmaci di vitamina D, sia in grado di migliorare l’outcome di pazienti con ipovitaminosi che avrebbero altrimenti una minore prognosi. In particolare, è stato dimostrato come, già dopo 3 mesi dalla prima supplementazione, e ancor di più dopo sei mesi, vi sia una migliore gittata cardiaca e un miglioramento dei parametri del volume e del diametro del ventricolo sinistro.
Risulta, dunque, estremamente importante, controllare periodicamente il livello sierico di vitamina D, soprattutto in persone che potrebbero esserne deficienti. In particolare, ciò che può influenzare negativamente la sintesi endogena o l’assorbimento di vitamina D, sono: l’età, i fattori genetici, la distanza dall’equatore, il fumo, l’utilizzo di creme solari per tutto l’anno, l’inattività fisica, il malassorbimento intestinale, il malfunzionamento epatico e renale, le terapie farmacologiche (glucocorticoidi, farmaci antirigetto, antiepilettici) ecc. ecc.
Il livello di 25(OH)D sierico espresso in ng/dl dovrebbe essere compreso tra 40-50, già al di sotto di questa soglia sarebbe necessario attenzionale il dato. D’altro canto però, anche una dove >50 ng/dl, potrebbe essere dannosa, perché potrebbe procurare tossicità. Per raggiungere la sufficienza è necessario esporsi alla luce solare anche solo per 10 minuti al giorno, senza l’utilizzo di creme protettive (i cheratinociti sono così in grado di sintetizzare autonomamente il 95% del nostro fabbisogno giornaliero) e includere, per il restante 5%, nella nostra dieta, cibi o alimenti fortificati che contengano tale indispensabile vitamina liposolubile.