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«Lo sa dottore? In realtà non sto così male come pensavo. Tutto sommato mi sento tranquilla qui a casa, anzi con il lavoro va anche meglio perché almeno non devo incontrare quei famosi colleghi di cui parlavamo»; «Sento tutti che si lamentano…io non mi lamento affatto, anzi a volte non capisco davvero cosa ci sia da lamentarsi!»; «Quasi quasi questa situazione è anche più vantaggiosa… sono molto tranquilla e sono abituata a uscire poco o a stare da sola», o ancora «Non mi è cambiato niente, anzi sono più concentrato su me stesso».
Anche voi avete detto una frase simile dall’inizio della quarantena? O magari l’avete solo pensata, in silenzio, nel timore che magari quelli intorno a voi vi guardassero in modo strano.
Già, gli altri intorno a voi… gli altri nei quali, già dalle prime settimane, avete notato irritabilità, frustrazione, problemi nel sonno, malinconia nel quotidiano e paura del futuro.
Ma per voi non è così. Non avete avuto nessuna di queste reazioni che, cercando in rete, vengono addirittura definite “normali”. Forse anche voi vi riconoscete in quel gruppo di persone che, fin dai primi giorni, ha provato un immediato adattamento e quasi una sorta di comfort in questa nuova situazione: non vi manca il lavoro o la scuola, anzi vi sentite quasi sollevati, finalmente, nel poter lavorare in smart working o nel seguire le lezioni a distanza.
Le frasi tra virgolette all’inizio dell’articolo sono vere. Sono di alcuni miei pazienti, quelli ai quali i miei pensieri sono andati per primi all’inizio del lockdown, pensieri come «Chissà la sig.ra Rossi con il suo problema di abuso alcolico come reagirà a questa notizia!», oppure «Il sig. Bianchi con il suo umore depresso, speriamo non faccia brutti scherzi». Ed ecco che proprio tra quelli che annoveravo tra i pazienti più fragili sboccia fin da subito un apparente paradosso: una reazione di immediato adattamento, di autentica percezione di auto-efficacia della propria condizione in mezzo a un malessere psicologico globale.
Una rivincita. O così sembrerebbe, da parte di quelle persone dalle quali meno me lo sarei aspettato.
Ma come… e tutti gli altri? Gli altri che dopo la prima euforia dei disegni arcobaleno appesi alle finestre, degli Inni di Mameli, dei Flash mob sul balcone e degli aperitivi in videochiamata si sono lentamente spenti, ciascuno scivolando nelle proprie preoccupazioni. Lo sconforto e la preoccupazione si sono insidiati subdolamente, malcelati da una improbabile facciata di allegri neopanettieri e amanti del fitness, mentre nelle settimane si sono aggiunte striscianti paranoie e diffidenze.
Di fronte a questa risposta generale la rivincita dei miei “fragili” pazienti sembra la vittoria ad Austerliz.
Quando mi scrivono che ora vogliono sospendere le sedute perché stanno bene, alcuni di loro, colti dal dubbio, mi chiedono anche: «ma sarà normale?!».
Per rispondere a questa domanda osserviamo meglio questo gruppo di persone. I primi che ho sentito avevano distimia, tono dell’umore depresso e in qualche caso una comorbilità con qualche dipendenza patologica. Mano a mano che passava il tempo se ne sono aggiunti altri con tratti o sintomatologie riconducibili a un particolare versante fobico-ansioso. Mentre il campione aumentava ho osservato anche che la durata della psicoterapia incideva: a questo gruppo afferivano i miei pazienti che erano in una fase del trattamento iniziale o intermedia, ma non avanzata.
Dopo un discreto numero di casi ho iniziato a mettere insieme i tasselli del puzzle per vedere quale figura ne uscisse, quale fosse il fattore comune di questa sorta di percepita bolla di tranquillità in un mare in tempesta.
Evitamento è stato immediatamente la parola chiave. Tutti i pazienti avevano in comune marcati tratti di personalità evitante che per alcuni di loro sfociava anche in un disturbo. Per chi non è del mestiere, un “tratto” di personalità non equivale a un “disturbo”, nella misura in cui quelle caratteristiche che delineano la sua personalità non sono così rigide e disadattive da compromettere il suo quadro affettivo, relazionale e socio-lavorativo.
Se vi domandate quali sono i tratti di un evitante, partiamo innanzitutto dall’idea che la persona abbia una bassa autostima e auto-efficacia di sé. Gli evitanti sono particolarmente preoccupati dal rifiuto, dalla critica o dal rendersi ridicoli agli occhi degli altri (colleghi, amici, compagni di classe ecc.): per difendersi dallo stato ansioso che ne deriva tendono a evitare situazioni sociali. Non che non le amino o non vorrebbero prenderne parte, intendiamoci. È solo che sono maggiormente sensibili al fallimento e al rifiuto altrui, per questo tendono a prediligere attività solitarie (lettura, film, musica, chat) e molti di loro strutturano una routine di vita che li fa sentire al sicuro e che gli dà una parvenza di controllo. Si tratta ovviamente di una risoluzione apparente dell’ansia, infatti spesso sentono e manifestano una insoddisfazione costante e pervasiva nella loro vita.
Immaginiamo tutto questo in quarantena: cosa accade?
Immediatamente la persona in questione trova che il suo modo di vita ideale, in cui si sente “al sicuro”, non viene più criticato, visto come strano o disfunzionale ma viene incoraggiato e indicato improvvisamente come una ricetta sociale salvifica. La persona con tratti evitanti è già ben allenata a questo stile di vita, quindi, a differenza della maggioranza degli altri, non avverte quasi per nulla il problema delle restrizioni. Si presentano anche ulteriori elementi di miglioramento percepito: la loro principale fonte d’ansia, ovvero le valutazioni negative, tende quasi a scomparire grazie a condotte sociali sostitutive come le lezioni o il lavoro a distanza, in cui monitor cuffie e microfono diventano una sorta di ansiolitici senza prescrizione medica.
Ultimo, ma non meno importante, il rinforzo sociale: molti di loro mi confermano un aumento di auto- efficacia nel vedere che una volta tanto sono gli altri ad avere difficoltà di adattamento mentre loro sono sereni e reattivi a queste nuove regole.
Prognosi.
Dovrebbe essere abbastanza evidente che “miglioramento” non significa “guarigione”: il senso di benessere non è infatti da attribuire ad un vero miglioramento di fondo, ma semplicemente ad aspetti circostanziali straordinari che, a ben vedere, non fanno altro che colludere con il sistema di evitamento del paziente. Il senso di insicurezza in sé stessi, la profonda fragilità e la forte vulnerabilità al giudizio altrui sono il risultato di risposte a storie individuali diverse e complesse e non possono avere una facile soluzione unificata. Ciò che accade in questa quarantena non è altro che un allargamento psicologico della propria zona di comfort per evitare le proprie paure col rischio molto concreto, una volta tornati alla normalità, di pagare il tutto con gli interessi. Del resto in psicologia vale una legge semplice e spietata: non affrontare le cause rinforza i sintomi.
Quindi… tutto il “bene” viene per nuocere? Per fortuna no. Questo effettivo miglioramento rappresenta un’opportunità, per lo meno per coloro che già si trovano a intraprendere un percorso di psicoterapia, per approfondire il lavoro intrapsichico. Se il paziente si sforza di non adagiarsi su questa narcotica bolla di tempo sospeso, potrà lavorare più lucidamente su cause, gestioni e superamento di queste credenze e paure.
La sensazione di minor pressione esterna e la percezione che “una volta tanto” anche loro si sono sentiti efficaci come agli altri (anzi più degli altri) possono rivelarsi una leva terapeutica molto efficace, un assist che non sempre si presenta nella vita. Tutto questo a patto di trovare il coraggio di uscire dall’area di comfort e di fronteggiare le vere paure guardandole in faccia. Anzi, lasciamolo all’anglosassone in cui un unico verbo esprime entrambi i significati: “to face the fear”.